Alle soglie dell'unione del ducato
di Modena e Reggio all'Italia il dott. Carlo Roncaglia pubblicò
a Modena nella "Statistica generale degli stati Estensi", un censimento
di tutti gli alberi della provincia di Reggio.
I dati, riferiti all'anno 1847,
ci permettono ora di capire con precisione quale era la situazione arborea
a quei tempi; nella statistica però non erano stati presi in considerazione
gli alberi esistenti nei boschi, ma unicamente quelli per così dire
"produttivi", quelli cioè che l'uomo coltivava ed utilizzava.
Scopriamo così che l'albero
più diffuso allora era l'Olmo, nella nostra provincia ne erano stati
"contati" ben 4.369.400, erano soprattutto quelli della piantata padana,
che cioè sorreggevano le viti ( a loro volta quasi sette milioni),
delle cui foglie si nutriva il bestiame e che sappiamo essere quasi completamente
scomparsi da tutta la pianura.
Tra questi 4 milioni e più
di alberi era stato conteggiato sicuramente anche l'"Olma di Campagnola"
oggi in relativa buona salute e che fa ancora bella mostra di sè
nella bassa. Questa maestosa pianta con i suoi duecento anni di età
è stata da tempo vincolata dalla Regione Emilia Romagna e addirittura
"carteggiata" sulle tavolette prodotte dall’Istituto Geografico Militare
negli anni '30. Le sue dimensioni sono davvero imponenti: quasi 30 metri
di altezza e più di 5 metri e mezzo di circonferenza.
Non meraviglia più di tanto
il secondo posto in ordine di numeri del Castagno (circa 1.700.000 piante):
a questa specie era affidata in buona parte la possibilità di sopravvivenza
delle popolazioni montane. Anche il Castagno ha subito un forte ridimensionamento,
la mutata situazione socioeconomica e la diffusione del Cancro corticale
hanno determinato l'abbandono della coltura, ora limitata a poche zone
dove vengono allevate con cura pregiate varietà da frutto: i cosiddetti
"marroni". Rimangono sparsi a testimoniare la presenza dei castagni, i
metati: costruzioni erette con lo scopo di essiccare le castagne direttamente
sul posto.
Più di cinquecentomila erano,
sempre secondo Roncaglia, i pioppi: coltivati anche allora per la produzione
del legname; rispetto alle due altre specie prese prima in considerazione
non sono stati vittime di grandi crisi economiche, anzi. Le varietà
coltivate ora sono comunque derivate dai pioppi di una volta; il legno
di questa pianta è utilizzato prevalentemente per le industrie cartarie.
Del quasi mezzo milione di salici
di un tempo, che i contadini utilizzavano in campagna per legare la vite,
non ne sono rimasti tanti, così come abbiamo già visto per
i gelsi utilizzati per la coltivazione del baco da seta.
Migliore sorte non è toccata
neppure alle querce che Roncaglia dice essere state 226.210; sorprendentemente
nelle statistiche compaiono anche 159.040 Roveri ( che sono anche loro
querce). Lo storico Marco Paterlini cerca di dare una spiegazione: «La
rora, nome dialettale della Rovere -dice- era un albero a decoro dell'abitazione,
ma anche utile in molti casi per il legno ed altro, era inserita nel progetto
umano del territorio più della quercia che pur sfruttata per le
ghiande come cibo dei maiali è più pianta autoctona di pianura".
Da parte nostra aggiungiamo una precisazione botanica: ai tempi di Roncaglia
non c'era la distinzione tra la Rovere e la Farnia (la quercia di pianura):
entrambe erano la Quercus robur di Linneo: ora la Farnia è la Quercus
peduncolata, la Rovere è Quercus sessiflora. Di querce, comunque,
con più di centocinquanta anni, in circolazione ce ne sono ancora,
molte sono protette e vincolate con decreto regionale del 1977. Non è
scomparso neppure il Platano, piantato in filari a fiancheggiare le strade
principali, alcuni esemplari dei 17.000 del censimento sono sicuramente
rimasti: quelli del Mauriziano e anche quelli dei giardini pubblici sono
di quel periodo
Significativa la presenza anche
di aceri campestri: 290.000, mentre minore era il numero delle piante da
frutto: 127.000 e dei noci: 61.000 utilizzati oltre che per i frutti anche
per il legname pregiato.In montagna, aveva segnalato pochi decenni prima
in occasine di un suo viaggio sull’Appennino Filippo Re le piante da frutto
prevaleti. Sono soprattutto meli, peri, ciliegi e in qualche caso, come
a Cinquecerri, anche peschi. Attorno a Nismozza, segnala sempre Re, ci
sono numerosi noci e dai frutti si ricava olio in discreta quantità,
a Marmoreto viene prodotto anche olio di faggina, utilizzando i frutti
del faggio, mentre a Vaglie si ricava una sorta di pane dai frutti dei
peri selvatici, che crescono spontanei nei boschi, dopo averli seccati
e trasformati in farina. Da mele selvatiche e susine si ottiene il sidro.
Da segnalare che, in una altra statistica
della seconda metà dell’ottocento, elaborata da Giacinto Scelsi,
risulta che la presenza dei pini e degli abeti assomma a 7mila unità,
quella dei frassini a 33mila.
Un'ultima considerazione: l'unica
specie aumentata rispetto al censimento del 1847 è l'Acacia (termine
con il quale si chiamava la Robinia pseudoacacia); originaria dell'America,
la "maruga", questo il suo nome dialettale, si è adattata a tal
punto da essere addirittura considerata infestante. Ha comunque anch'essa
buone qualità: buon potere calorico del legname e fiori molto apprezzati
dalle api per la produzione del miele.