VALERIO VECCHIARELLI

IL TEMPO 27/12/95

Jonah Lomu

TONGA, isole che vanno, isole che vengono. Dalla scorsa estate un pezzo di terra vulcanica, di quelle che l'Oceano Pacifico partorisce con la stessa velocità con cui inghiotte, si chiama Jonah. Jonah Lomu. La dedica con tanto di isola personalizzata, l'ha fatta re Tupou IV, sovrano perennemente a dieta (pesa 145 kg!), amante del rugby e delle tradizioni della sua terra. Un figlio di quell'arcipelago incantevole, un figlio del mare e dell'orgoglio tutto isolano di sentirsi padroni del proprio passato (Tonga è l'unico stato del Sud Pacifico a non aver mai conosciuto colonizzazioni) aveva incantato il mondo rincorrendo la leggenda con un pallone ovale sottobraccio. Jonah Lomu, il crack dell'anno, il primo giocatore arrivato ad infrangere dogmi secolari, come quello che nel rugby vuole un uomo uguale a nessuno. Il collettivo prima di tutto. Prima dell'esplosione Lomu.

Il ragazzone ha dato una spallata alla storia in Sudafrica, durante la Coppa del Mondo, su un palcoscenico in cui era arrivato quasi per caso e dal quale è sceso come assoluto protagonista. Maglia degli All Blacks di Nuova Zelanda sulle spalle, felce d'argento sul cuore, Tonga, l'infinita spiaggia di Tonga, nella testa. Un pensiero fisso. Dalla spiaggia di Ha'apai era partito papà Semisi, una giovinezza passata a tirar su reti gonfie di pesce durante la settimana, a dilettarsi con il rugby, il passatempo preferito dalla sua gente, il sabato, a santificare la domenica in nome del Signore. Girocollo da omino Michelin, braccia forti, lo stomaco pronunciato di chi ama la buona cucina, Semisi Lomu nel 1969 trovò un posto nella nazionale di Tonga. Un pilone nato e cresciuto. Poi l'incontro con Hepi, l'amore, la voglia di metter su famiglia e la decisione di emigrare in Nuova Zelanda, per trovar lavoro, soldi ed il coraggio di assicurare un futuro alla stirpe. Destinazione Mangere, un sobborgo operaio a sud di Auckland. Lì, il 12 maggio 1975 nacque Siona. Cinque chili di bambino, segno del toro. Quando si dice il destino. Mamma Hepi non era un donnone da far spavento, ma evidentemente aveva conservato cromosomi da giganti. Siona li prese tutti per se.

Papà Semisi nel frattempo aveva deciso di trasmettere il suo credo agli altri, era diventato pastore della chiesa cristiano metodista ed il sabato lo passava recitando sermoni ai fedeli. Siona cresceva a vista d'occhio ed i genitori decisero di iscriverlo ad una scuola di estrazione conservatrice, per tenerlo fuori dalle cattive compagnie e da quelle bande di ragazzacci che scorrazzavano per le vie di Mangere. Scuola inglese. Sul registro di classe Siona divenne Jonah, Jonah Lomu. Errore di scrittura o solito vizio tutto inglese di rapportare ogni cosa al proprio volere, fatto sta quel nome inglesizzato gli rimarrà per sempre. Jonah, come la balena. Altro segno del destino.

Jonah cresceva a vista d'occhio, mamma Hepi si spaccava la schiena in fabbrica per pagare le rette della scuola e per comprare ogni mese un nuovo paio di scarpe da infilare in quei piedi che non volevano saperne di smettere di lievitare. Un ragazzo modello, bravo sui libri, bravo sui campi di gioco, dove aveva iniziato a conoscere le regole del Rugby League, lo sport che si gioca in tredici e che con il rugby tradizionale ha in comune la forma del pallone ed il fine ultimo di ogni azione: la meta. Jonah cresceva, Dio mio come cresceva. Finita la scuola primaria lo iscrissero al college, il Wesley College di Auckland, scuola metodista, intrisa di tradizione e di rigore. Quello che voleva papà Semisi, costruire un buon carattere è la base per riuscire nella vita. E poi al Wesley si giocava al rugby, il rugby tradizionale. Il primo amore non si scorda mai.

Lo sport, in quella scuola, era materia di insegnamento. Jonah aveva imparato ad amare l'atletica leggera. Su pista e pedane tutto gli riusciva fin troppo facile, non adorava certo sacrificarsi in palestra, sobbarcarsi di lavoro, spendere il suo tempo libero in pesanti sedute di allenamento. Ai pesi ed al body building preferiva le radici di taro bollite, un vegetale tipico di Tonga che mamma Hepi preparava con tanto affetto. Conservare anche i sapori della propria terra, farli conoscere ai propri figli, faceva parte dell'educazione. Fino a quando Jonah non scoprì il "Kentucky Fried Chicken", il pollo fritto del fast food: ne andava matto, riusciva a mangiarne fino a tre confezioni famiglia a pasto e mamma Hepi fu costretta a cambiare i suoi metodi educativi. A tavola doveva fare gli straordinari. In barba al pollo fritto il ragazzo non ingrassava. Cresceva. E venne il giorno dei campionati nazionali studenteschi di atletica leggera: Jonah vinse 100 metri, 110 ostacoli, lancio del giavellotto, salto in lungo, salto triplo e trascinò la staffetta del Wisley College al successo. Ci rimase male per il secondo posto nei 300 ostacoli e nel lancio del disco. Gli organizzatori avevano dovuto condensare le gare, gli orari non gli avevano permesso di recuperare in tempo le fatiche, di saltare dalla pedana alla pista come avrebbe voluto. Incontentabile Jonah.

Ma il suo destino era il rugby. Sia perché chi li avrebbe più sopportati i raccointi delle battaglie su un campo di gioco fatti la sera da papà Semisi, sia perché era finito in una terra dove ai bambini Babbo Natale sotto l'albero fa trovare un pallone ovale. E li rende felici. Detto e fatto. Nel 1992 e nel 1993 venne selezionato tra gli Scolares, la nazionali giovanili di Nuova Zelanda. Naturalmente lo schierarono nel pack, lui che oramai era arrivato a 196 cm in altezza e che ogni mischia appoggiava 118 kg sui glutei dei compagni. Spingere, a quel punto, diventava un optional. Non c'era ruolo che non gli si addicesse, poteva giocare in seconda linea a spiccare palloni dal cielo in touche o in terza linea, a dirigere il pacchetto o promuovere percussioni devastanti. Sapeva anche usare il piede, lui che oramai era costretto a servirsi da un calzolaio personale per farsi confezionare scarpini numero 50. Capito perché mamma Hepi non finiva mai di lavorare per comprare scarpe? Nel 1993 mise dentro un calcio piazzato da 45 metri e consegnò al College l'ennesima vittoria. Qualcuno intuì che il bambinone poteva anche essere impiegato dietro, tra i tre-quarti. Sempre che si fosse trovata gente capace di sotituirlo in mischia.

Prima di lasciare il college Jonah partecipò ad un'altra gara di atletica leggera. Cento metri da volare in un batter d'occhio. Il cronometro si ferma su 10.78. Cento metri volati. E se è vero che la massa è direttamente proporzionale all'accelerazione...

Finita la scuola, con un diploma nel cassetto, era arrivata l'ora di fare scelte: Jonah vorrebbe andare ad una scuola di grafica, ama disegnare, ama i fumetti, un mondo che lo affascina. Dice che la vita deve essere un divertimento. Non c'è niente che lo diverta più dei fumetti. E del rugby, naturalmente. L'università resta un sogno, papà Semisi lo piazza all'Asb Bank of New Zealand, un posticino tranquillo, di quelli in cui il week-end è libero e si può pensare a giocare. Quando arriva in ufficio il sarto di turno ha i suoi bei grattacapi per cucirgli addosso la divisa aziendale: deve inventarsi una camicia con 50 cm di colletto, una giacca che avvolga 128 cm di torace e non si strappi al primo sussulto di quelle spalle da bisonte. In banca è un impiegato modello, quando un cliente perde la chiave della cassetta di sicurezza o quando c'è da spostare qualche cassaforte... Lo mettono alla cassa, a contare i soldi. Altro segno del destino.

Il giorno in ufficio, la sera all'allenamento. Quattro partite, quattro, con la maglia del Counties, una selezione provinciale che non ha mai trovato gloria nel campionato neozelandese, schiacciata da squadre del calibro di Auckland, Canterbury, Wellington. Quattro partite, quattro, da seniores ed arriva la prima convocazione per gli All Blacks. Christchurch, 26 giugno 1994, primo test dei Tutti Neri con la Francia. Jonah, a 19 anni e 45 giorni, diventa il più giovane neozelandese ad avere indossato la maglia della propria, leggendaria, nazionale. Una giornata disastrosa: i galletti alzano la cresta e le suonano dentro casa loro ai neozelandesi, vincono e lasciano una nazione turbata dai dubbi. Quando gli All Blacks perdono, laggiù è lutto nazionale. Jonah è sempre fuori posizione, in difesa sembra un agnellino impaurito, quei pochi palloni che gli giungono in mano si perdono nel nulla. Poi il secondo test, ad Auckland, ed il disastro diventa dramma. La Francia raddoppia, mai una squadra transalpina aveva fatto sua una serie, il vecchio rugby europeo gonfia il petto, nell'altro emisfero abbassano la testa. Normale epurazione, il primo a prendere le spese di viaggio è l'ultimo arrivato. E Jonah Lomu viene parcheggiato. Deve crescere. Ancora?

Laurie Mains, il tecnico All Black, lo vuole cancellare dalla sua testa. Troppo giovane, troppo indisciplinato, troppo poco incisivo in difesa per meritare la maglia tutta nera. Gli inglesi ancora si mangiano le mani: perché Mains è tornato sui suoi passi? Dimenticato Lomu la Nuova Zelanda si prepara alla Coppa del Mondo, in programma in estate in Sudafrica. In febbraio tutti gli atleti in odore di nazionale vengono convocati ad Auckland per la routine dei test fisici. C'è anche Lomu. Pollo fritto e radici di taro hanno fatto il loro corso, insieme ai muscoli, sempre tanti, c'è qualche cuscinetto di grasso di troppo. E quella che sembrava una splendida macchina costruita per demolire gli avversari su un campo da rugby torna ad avere sembianze umane. Jonah è l'ultimo nei test, corre piano, salta poco, è svogliato. Solo un miracolo potrà farlo rientare nel giro mondiale. Laurie Mains, a quel punto, si mette l'anima in pace. Dopo aver letto tabelle e risultati con le prestazioni del giovanotto di Tonga pensa di avere la coscienza a posto. Deve ancora crescere, nella testa deve crescere, capire che per arrivare dove ogni neozelandese sogna di arrivare bisogna sacrificarsi, allenarsi, rinunciare a qualcosa. I cromosomi di papà Semisi e mamma Hepi non sono più sufficienti.

Gli All Blacks cominciano il loro tour de force in vista del mondiale. C'è da riprendersi lo scettro di padroni del mondo di Ovalia lasciato quattro anni prima in Inghilterra sotto agli occhi vispi della regina, c'è da riaffermare lo strapotere di una scuola. Vanno in Canada per una tournèe di preparazione. Senza Lomu. Lui intanto ha capito, non ha ancora gettato la spugna e ci si è messo di impegno. Dopo la banca va in palestra, una, due, tre sedute con i pesi. Lo blocca il suo prepratore atletico: "in un batter d'occhio stava diventando troppo spazioso", dirà poi. Con il Counties gioca in mischia, in terza linea, e riprende a segnare mete a valanga. Gli All Blacks in Canada, lui a Hong Kong. Veste una maglia nera nel torneo di rugby a sette più famoso del mondo, un vero e proprio campionato mondiale del surrogato del rugby, gioco amato nel Sud Pacifico, veloce e spettacolare. Campo e regole sono sempre quelle, il numero di giocatori dimezzato. Il che vuol dire: palla indietro e pedalare. Lomu fa sfracelli, conduce la Nuova Zelanda per la prima volta alla vittoria, viene eletto miglior giocatore del torneo e torna a sperare.

Quando si dice le coincidenze. John Timu, estremo che aveva già pronte le valigie per Città del Capo, si fa rapire dal miraggio del guadagno facile. Cede alle lusinghe del Rugby League, firma un contratto miliardario, diventa professionista e libera un posto in squadra. A Wangharei è in programma l'ultimo trial di selezione per la Coppa del Mondo: isole del Sud contro isole del Nord. Jonah Lomu rientra dalla porta di servizio, Hong Kong ha insegnato qualcosa. Si mette in luce, va in meta e costringe Laurie Mains a rivedere i suoi piani. Ci penseremo. Poi un'altra partita, i probabili All Blacks contro i Barbarians neozelandesi. Lomu è tra i Barbarians, un nome che gli calza a pennello. Ancora il destino.

Gioca sempre in terza linea, due sgroppate furiose tagliano a metà il campo. Non lo fermano più, i probabili sanno che per quel gigante andare in Sudafrica ora è più che possibile. Laurie Mains oramai è convinto, decide di portarselo dietro, per farlo giocare c'è tempo. E gli inglesi si mangiano le mani.

Il resto è storia recente. Storia di un'esplosione atomica. Esordio in Coppa del Mondo, 27 maggio 1995, Ellis Park di Johannesburg, il salotto buono del rugby sudafricano. La Nuova Zelanda cancella l'Irlanda. Laurie Mains è andato contro le sue convinzioni ed ha schierato Jonah Lomu all'ala, un posto dove la sua poca disciplina poteva procurare meno danni alla squadra. Dopo esser stato il più giovane All Black di sempre, il ragazzone di Tonga diventa così anche il più pesante tre-quarti che la Nuova Zelanda abbia mai schierato. Inizia la sfilza dei record personali. Gli All Blacks giocano un rugby stellare, Lomu è il terminale di ogni azione. Calpesta per due volte i malcapitati irlandesi per raggiungere l'area di meta. Il mondo inizia a preoccuparsi.

Dopo l'Irlanda il Galles. Altra vittoria senza appello dei Tutti Neri, ma questa volta il gigante chiede troppo al suo fisico: non trattiene l'irruenza, va dritto per dritto contro un avversario e ci rimette una spalla. Non potrà partecipare all'incontro dei record contro il Giappone, il suo sotituto, tale Mark Ellis, in quella partita va in meta sette volte e riscrive i libri di statistica. Se ci fosse stato Lomu i patiti dei numeri sarebbero andati in tilt.

Si arriva ai quarti di finale. A Pretoria l'orgoglio della Scozia non può nulla contro la forza dei guerrieri maori. Lomu è tornato, la spalla non fa più male. Riduce un mito come Gavin Hastings a zerbino, chi prova a placcarlo sopra alla cintola fa la fine dello zainetto. Una meta da paura, almeno altre tre fatte segnare, perché quando lui mette in moto le gambe calamita l'interesse di tanti, troppi avversari, e libera autostrade in cui si tuffano a capofitto i compagni di squadra. E ringraziano.

Non si parla d'altro, la Lomumania monta giorno dopo giorno, fino a diventare il passatempo (ed il terrore) dell'estate sudafricana. In semifinale, a Città del Capo, il capolavoro: quattro mete agli inglesi, la prima dopo 85 secondi di gara, Carling, Underwood, Catt che ancora stanno lì a contare le stelle che girano nella loro testa. Tony Underwood, dopo quella partita, ha smesso di giocare, Will Carling ha dimenticato la diplomazia: "Che razza di pastore è questo signor Semisi Lomu? Come si fa a contravvenire alle regole della religione e dare la dispensa al proprio figlio per farlo giocare la domenica?". Piccolo particolare: quella semifinale si giocava di domenica. Papà Semisi aveva chiesto al Signore di chiudere un occhio.

In finale gli All Blacks se la devono vedere con gli Springboks padroni di casa. Il paese ha paura di Lomu. Le ragazze del posto si offrono volontarie per disturbare le notti dell'eroe, qualche lingua lunga sussurra per migliorare la razza. I Dallas Cowboys fanno sapere che c'è pronto un contratto da 4 milioni di dollari per portare Jonah nel mondo dorato del football americano, 12 squadre di Rugby League mandano emissari nella Nazione Arcobaleno per convincere il gigante a diventare professionista, la Shell mette in palio 5.000 rand (2,5 milioni di lire) per ogni volta che i sudafricani riusciranno a fargli assaporare quanto sia morbido il prato dell'Ellis Park. Non ci sono più regole, i soprannomi si sprecano (crashabang man, caterpillar, terminator, rhino), mai nessun rugbista si era permesso il lusso di mettere in secondo piano il nome della propria squadra. Se poi quella squadra si chiama All Blacks... non c'è più religione. In finale vince il Sudafrica, ma quello era scritto. Jonah è imbambolato, lo braccano, lo riducono ad un comune mortale. Il Sudafrica è in festa, si regala un Mondiale atteso troppo tempo per non essere vero. E regala al mondo una stella che brillerà a lungo.

Il Rugby è diventato "open", la New Zealand Rugby Union si è affrettata a cavalcare la novità ed ha messo sotto al naso del suo tesoro un contratto da un milione di dollari l'anno. Non riusciranno più a portarglielo via. Adesso che Jonah è più tranquillo, conosce il proprio futuro, può ricominciare a pensare al pollo fritto, a mamma Hepi, ai fumetti. Altro che Terminator, Forrest Gump è il suo idolo e ne divora i dialoghi fino ad impararli a memoria. Sul finire dell'estate gioca due volte contro l'Australia, due vittorie, due mete personali. I giornali australiani titolano: "Wallabies have been Jonahed", ovvero i canguri sono stati "Jonahti". La traduzione è impossibile, forse tritati, calpestati, distrutti. Un'apparizione veloce in Italia, altre due mete. Poi l'esplosione promessa in Francia, nel secondo test, al Parco dei Principi. Lo aveva annunciato a Chirac con una lettera personale, per difendere il suo mare dalla minaccia nucleare. Promessa fatta e mantenuta.

Intanto mamma Hepi ha ripreso a cucinare radici di taro, ci sono da sfamare altre bocche. Quelle di John e Talanoa, fratellini di Jonah. Hanno già conquistato un posto in prima squadra nel Wisley College. Crescono. Che i cromosomi di papà Semisi abbiano ancora lasciato il segno? Il mondo del rugby aspetta con ansia. Come fa Jonah sulla spiaggia di Ha'apai, la sera, dopo aver cavalcato le onde sull'amato surf, quando torna ad immergersi nelle sue tradizioni. Jonah la balena sulla spiaggia. Che sia solo un favola? Chiedetelo agli inglesi.