LA marea nera è sbarcata in Sicilia. Una partita di assaggio con l'Italia dei rincalzi (ore 20.30), poi un assaggio di partita sabato a Bologna con l'Italia vera, quindi il tour in Francia con due test-match (11 novembre a Tolosa, 18 novembre a Parigi) contro i galletti d'oltralpe per mettere in chiaro chi è il padrone del mondo ovale. Abbiamo dentro casa gli All Blacks, il Rugby, la squadra che più di ogni altra si identifica con uno sport e le sue leggende.
Leggende, come quella che ha coniato un nome che mette i brividi solo a pensarlo: All Blacks, traduzione Tutti Neri. Sarebbe troppo semplice pensare al colore della tenuta di gioco. La storia non scritta vuole che durante la trionfale tournee in Gran Bretagna del 1906 un cronista del Times definì quegli scatenati uomini arrivati dal nuovo mondo <all backs>, ovvero tutti tre-quarti, avendo notato in loro una collettiva smania di giocare tutto il giocabile e di trovarsi sempre all'appuntamento con il pallone. Poi un refuso tipografico trasformò la definizione in All Blacks e la leggenda fu confezionata. Leggende. Sempre in quella tournee l'unica sconfitta in 24 incontri i neozelandesi la rimediarono contro il Galles. Quella volta Bob Deans segnò la meta più contestata della storia, una meta che avrebbe reso una squadra invincibile. L'arbitro non la concesse, il Galles vinse tra le polemiche. Due anni più tardi, a soli 24 anni, Deans morì per complicazioni polmonari. Prima di spirare disse: <Io quella meta l'avevo segnata> e la leggenda divenne storia.
Di tempo ne è passato, il rugby è cambiato, il <miglior modo per tenere lontano dal centro della città trenta energumeni> è diventato spettacolo puro, affare televisivo, business, eppure loro, gli All Blacks, conservano intatta la leggenda. Sarà per l'Haka, quel modo tutto particolare di iniziare le partite invocando gli spiriti della guerra, sarà perché hanno trasformato un gioco in una religione, sarà perché in patria chi veste la maglia nera con la felce d'argento sul cuore diventa un eroe nazionale, di quelli da additare ad esempio alle future generazioni, ma nella fantasia di tutti quando si pensa al rugby vengono in mente loro. Dopo aver vinto a raffica tra il 1986 ed il 1990 (22 vittorie ed un pareggio in 23 incontri ufficiali!), hanno visto gli australiani scippargli sotto il naso la Coppa del Mondo, sofferto l'intraprendenza della Francia, conosciuto qualche passaggio a vuoto. Fino all'ultima sconfitta, la più crudele, contro il Sudafrica nella finale di un'edizione del Mondiale che aveva scritto a priori chi dovesse essere il vincitore. Dalle polveri è nata una squadra nuova, con una mentalità rivoluzionaria, decisa a dare spettacolo, confezionata intorno all'arroganza fisica di Jonah Lomu ed all'ineguagliabile capacità di trasformare su un campo di rugby l'impossibile in routine, in qualcosa di naturale, innata in giovanotti di belle speranze (Mehretens, Wilson, Osborne, Little, Kronfeld, Joseph).
Questi All Blacks sono la squadra del futuro. Non è difficile pronosticare per loro un nuovo dominio universale, hanno variato l'approccio con il gioco, non la mentalità. Sono stati tra i primi a vivere di rugby (tra contratti pubblicitari, ingaggi, premi, un All Black oggi guadagna 200 milioni di lire l'anno), perché per rimanere al passo con i tempi avevano deciso di dare una spallata alle contraddizioni del professionismo mascherato. Sono fatti così, prendono il mondo a spallate. Hanno qualcosa che gli altri non hanno, la capacità di far diventare quindici giocatori una cosa sola, di sopprimere le emozioni, di cimentarsi tra mischie e placcaggi per affermare un credo. Nel rugby è tutto. Il Rugby chiede all'Italia di trasformare un week-end da sogno in leggenda.