LA malcelata paura era quella di portarli nel deserto. Gli Springboks all'Olimpico, un azzardo, una scommessa persa in partenza, il terrore di ospitare i Campioni del Mondo nel vuoto, nel silenzio, in uno stadio ciclopico, troppo per il popolo del rugby abituato a vivere in famiglia le sue passioni. Come d'incanto l'altra domenica, quella orfana del calcio, ha regalato i colori vivaci di quarantamila persone che di colpo si sono scoperte coinvolte nella mischia, trascinate dal coraggio di azzurri mai sentiti nominare, pronte a interpretare regole sconosciute. Roma ha vinto la sua scommessa, quarantamila (portoghesi e beneficenza a parte) sono un record assoluto per il rugby italiano.
Non potremo avere il Sudafrica tutti i giorni dentro casa, ma il messaggio lanciato domenica dalla Roma sportiva può lasciare il segno. La strada l'aveva aperta Bologna, sempre uno stadio chiesto in prestito al calcio, sempre il Mito per avversari: due settimane fa in trentamila andarono a rendere omaggio agli All Blacks e si gridò al miracolo. Fino a far gonfiare il petto ad una città satura di grande sport, che sfruttò l'entusiasmo del momento e lanciò la sua candidatura ad ospitare, come sede permanente, gli incontri del Cinque Nazioni quando l'Italia sarà chiamata nel regno dei grandi. Quel momento non è più così lontano. Roma ha risposto, forse Bologna sarà più vicina al baricentro del nostro rugby che come è noto ha nel Veneto la sua nicchia d'elezione, ma le cattedrali del rugby, Twickenham, Murrayfield, Arm's Park, Lansdowne Road, sono a Londra, Edimburgo, Cardiff, Dublino, nelle capitali dei paesi ovali. <Noi vi portiamo a giocare nei templi del rugby, voi ci avete fatto giocare nel tempio dello sport. Un'emozione unica, l'atmosfera di quello stadio era magica>, ha detto Morne Du Plessis, uno che prima di diventare il team-manager è stato il capitano della nazionale Springbok.
Si può fare, avere un tempio del rugby tutto italiano. Lo aveva annunciato Pescante durante la Coppa del Mondo, il giorno in cui gli anglosassoni ci aprirono la porta del Cinque Nazioni: il maquillage del Flaminio ha quello scopo. La gente lì ad un passo, dentro alla partita, come in Scozia, come in Inghilterra, come nei pensieri di un'Italia che scalpita per sentirsi grande. Si può fare, tra mille contraddizioni, in una città dove la domenica a vedere il rugby, rugby di serie A1, vanno sempre i soliti noti, centocinquanta inguaribili appassionati, gli stessi che si possono incontrare ad una partita tra bambini o tra veterani con qualche chilo di troppo. Serve lo spettacolo, servono le vittorie. Una settimana fa, al <Tre Fontane>, per l'incontro tra Roma e Benetton, il massimo che può offrire il campionato, c'erano sempre loro sugli spalti: centocinquanta. Poi la mente corre indietro, al 10 aprile dello scorso anno, ad una Roma che pensava allo scudetto, alla semifinale playoff con il Milan, ai seimila che sfidarono il diluvio in tribuna per aggrapparsi ad un sogno tricolore. Quella squadra si è sciolta sotto al sole d'estate, senza soldi non si va lontano. E sono rimasti i soliti, incalliti, centocinquanta. Ma all'Olimpico richiamati dal grande spettacolo erano in quarantamila. Il Cinque Nazioni a Roma? Si può fare. Non sarebbe più una scommessa persa in partenza.