L'OLIMPICO dilata i suoi spazi verdi e per un giorno inventa dal nulla 1680 mq di prato. Dovere di ospitalità, il calcio presta al rugby il suo tempio per accogliere gli Springboks campioni del mondo, gente che ha bisogno dell'area di meta per sguinzagliare la fantasia. E l'area di meta sarà confezionata per l'occasione. Domenica la piccola Italia ovale potrà aggiungere nel suo libro di storia un altro capitolo, la prima volta che si ha la possibilità di affrontare il Sudafrica, ovvero il rugby. E i suoi eccessi.
Laggiù il pallone ovale è compagno di studi, disciplina educativa per eccellenza, materia obbligatoria di insegnamento scolastico. E' passione allo stato puro, follia collettiva, religione. Sì, religione, più che in Nuova Zelanda, più che nei vecchi college inglesi. Nel paese delle mille contraddizioni, delle infinite razze, delle undici lingue ufficiali, il rugby ha sempre avuto un ruolo determinante, ha accompagnato passo passo il cammino di un popolo, fino a diventare, è storia dei nostri giorni, il mezzo attraverso il quale affermare l'avvento di una nuova era, il veicolo per presentarsi cambiati agli occhi del mondo. Da sempre sport dei bianchi, è stato adotatto dai boeri come il proprio passatempo preferito. Appunto i boeri, razza di giganti, di gente che sembra avere nel codice genetico un cromosoma ovale. Sarà perché mangiano carne a più non posso, sarà perché la loro vita è sempre stata una lotta, una selezione naturale spietata, ma sembrano davvero un'etnia confezionata per cimentarsi su un campo da rugby. E loro da sempre si sentono il popolo eletto, la loro bibbia, quella della Chiesa riformata d'Olanda, predica questa supremazia. Non hanno tardato a tradurre tra mischie e placcaggi un credo, fino ad essere quasi fastidiosi in quel volersi sentire sempre i migliori. Nel rugby prima di tutto.
Poi le guerre, gli odiati inglesi che sbarcano a Città del Capo, armati fino ai denti, decisi a diventare padroni e colonizzatori. Il rugby, sempre lui, diventa il mezzo migliore attraverso il quale vendicare le sconfitte sul campo di battaglia. Sembra una favola, è realtà. Nel bel mezzo della seconda guerra anglo-boera, nel 1902, ci fu una tregua: c'era da disputare una partita tra l'armata inglese ed i civili boeri, non se ne poteva fare a meno. <Gli inglesi possono aver vinto la guerra, ma noi abbiamo insegnato loro a rispettarci su un campo di gioco. Il rugby, un gioco robusto, ideale per mettere alla prova la forza dei temerari conquistatori di un territorio selvaggio, per far alzare la testa ad una comunità calpestata, per unire nei colori verdeoro la litigiosa e frazionata fazione afrikaneer>, scrivevano gli storiografi dell'epoca. Lo stesso sentimento è andato avanti per quasi un secolo, fino a far diventare un gioco il simbolo del potere razzista, fino a far dire a Nelson Mandela che durante la prigionia a Robben Island ogni volta che gli Springboks perdevano in galera si festeggiava a più non posso. Tempi andati. Lo stesso Mandela il 24 giugno ha pianto di gioia quando Francois Pienaar ha levato al cielo la Coppa della resurrezione.
Di colpo lo sport degli oppressori è diventato lo sport di tutti, Francois Pienaar l'ugonotto, Joel Stransky l'ebreo, James Small l'inglese, Chester Williams il nero, Kobus Wiese il boero, hanno pregato insieme, in cerchio, sul prato dell'Ellis Park, ringraziato il Signore per aver ancora una volta concesso loro l'onore di essere i migliori. Convinzione che dalla testa non gli toglierà più nessuno. Cambiano i tempi, allo Springbok, l'agile gazzella che zampetta sulle colline del Capo, si sono uniti i fiori di Protea, simbolo della comunità nera. Qualcuno aveva proposto l'abolizione del nome e del simbolo, Springboks era sinonimo di vecchio regime, di storia da dimenticare. Nel cricket, altro divertimento nazionale, lo Springbok non esiste più. Nel rugby no, è sceso in campo perfino l'arcivescovo Desmond Tutu, per difendere una tradizione, per non cancellare un pezzo troppo importante della storia sudafricana. E gli Springboks rimarranno Springboks, per sempre.