Nella nazione a colori, tra i problemi in bianco e nero, l'eroe non poteva essere che lui, Chester Williams, il simbolo del nuovo modo di intendere le cose, il testimonial del Sudafrica che rincorreva un sogno ovale. La sua faccia da tutte le parti, lo slogan <L'attesa è finita> la sua carta d'identità, quello slogan che il giorno del trionfo si trasformò in <Valeva la pena aspettare>, quasi a voler cancellare di colpo quello che c'era stato alle spalle
Di diverso dagli altri Springboks Chester ha il colore della pelle: nero, nel mondo dei bianchi. Non era una novità, Wilfred Cupido ed Erroll Tobias avevano giocato in nazionale ai tempi dell'apartheid, ma quella fu solo un'operazione di vetrina, una scelta politica, si cercava di far credere che in fondo su un campo da rugby si poteva anche essere tolleranti. Chester no, il suo posto all'ala lo ha guadagnato a suon di mete, di volate mozzafiato, di uno spirito da combattente innato. Fino a quando il destino non ci ha messo lo zampino: pochi giorni prima della Coppa del Mondo uno stiramento ed addio sogni di gloria. La freccia nera rimase in naftalina, poi Hendricks, il suo sostituto, si fece prendere la mano ed assestò due diretti in faccia ad un canadese. Squalifica inevitabile, come inevitabile fu il ritorno di Chester nei quarti di finale, contro le Samoa. Quattro mete personali e la sensazione che nessuno gli avrebbe più negato l'etichetta di eroe. WinChester, la pallottola nera, ha vinto così la sua battaglia.