CORRIERE DELLO SPORT

Venerdì, 10 novembre 1995
Dall'inviato Francesco Volpe

ROMA - Cinque anni vissuti pericolosamente. Tra dimostrazioni, partite clandestine, attentati. A Roma sono arrivati gli Springboks di oggi, campioni del mondo, idolatrati da bianchi e neri nella terra dell'arcobaleno. Ce li racconta un grande Springbok di ieri, Rob Louw. Una storia che parte dai primi anni '80, quelli dell'apartheid, del boicottaggio, dell'odio planetario per un sistema aberrante. Louw tra l'80 e il '84, anno della messa al bando dello sport sudafricano, è stato una delle colonne di quella Nazionale stellare, con Naas Botha, Danie Gerber, Ray Mordt, Flippie Van de Merwe, Carel Du Plessis. Quegli Springboks avrebbero stravinto qualsiasi Mondiale ed invece erano solo l'emblema di una minoranza arrogante e razzista. Oggi Louw, 40 anni, allena a Roma. Era venuto per guidare una squadra da scudetto, ha trovato una banda di ragazzini. Ma non è risalito sul primo aereo. No, s'è rimboccato le maniche. Perché il rugby, giocato da nonnetti o poppanti, bianchi o neri, per un sudafricano è soprattutto una religione.

Un adolescente in Sudafrica non pensa che alla maglia degli Springboks. Sogna di indossarla e di battere gli All Blacks a casa loro. Il verde-oro in Sudafrica è come l'azzurro del calcio per un bambino italiano: un miraggio, un traguardo. "Ricordo il mio esordio, nell'80. I vecchi mi imposero la "matricola": pacche sul sedere fino a farlo diventare blu. Ma la felicità superava il dolore. Giocavamo poco: Australia, Galles, Scozia e Irlanda rifiutavano già di affrontarci, per l'apartheid. Eravamo uno squadrone. La Francia che avrebbe poi vinto il Cinque Nazioni prese 40 punti a Pretoria".

"Le nostre partite all'estero erano avventure. In Nuova Zelanda, nell'81, fummo costretti a dormire negli spogliatoi alla vigilia dei tre test-match: all'indomani i manifestanti non ci avrebbero consentito di raggiungere lo stadio! E ad Hamilton, contro Waikato, l'arbitro dovette sospendere l'incontro perché un aereo planava a ripetizione sulle nostre teste. Noi però volevamo solo giocare. Quella volta ci accordammo per farlo di sera, su un campetto di periferia... poi saltò tutto". La memoria di Louw è un fiume in piena: "Ad Albany, negli Stati Uniti, dovemmo ripiegare su un campo di polo per evitare il corteo di protesta organizzato allo stadio da Jesse Jackson. Montammo le porte per conto nostro, e si giocò grazie a un cordone di Polizia. Nel '79, in Inghilterra, dettero fuoco al pullman. E pensare che quella era la prima squadra mista creata dalla Federazione: 8 bianchi e 8 neri. Fosse caduto prima quel maledetto apartheid... Per anni il massimo del nostro rugby è stata la Currie Cup. In una stagione affrontai cinque volte Botha. E non mi stava neanche simpatico! "La tua faccia mi ha stancato" gli urlai alla quinta partita. Anche per questo venni in Italia, a L'Aquila. Cercavo nuove esperienze. E per questo Mordt e io nell'85 passammo al rugby a XIII, col Wigan. Ci pagarono mezzo milione di rand (oggi sarebbero 200 milioni; ndr) per due anni. Una fortuna!".

Louw vende gommoni a Città del Capo, la città meno sudafricana del Sudafrica. Lì erano e sono molti i bianchi anti-razzisti, lui tra questi. "Errol Tobias, il primo meticcio a vestire la maglia degli Springboks, era mio grande amico. Quando la moglie partorì, feci da padrino al figlio. Un gesto che destò grande scalpore. La gente mi fermava per strada, mi insultava, mi urlava "fratello dei negri", in tono dispregiativo. Quandici anni fa solo il 30% dei bianchi era contrario all'apartheid. Eppure "Doc" Craven (santone del rugby sudafricano, scomparso tre anni fa; ndr) ci portava nei villaggi o nei ghetti ad allenare i bambini neri, lavorava per creare campi e strutture".

Dopo 8 anni di isolamento, nessuno avrebbe scommesso su un ritorno del Sudafrica ai vertici: "La vittoria in Coppa del Mondo è stata il frutto di un lavoro immenso. In tre stagioni abbiamo sperimentato un esercito di giocatori, quasi tre Nazionali. Poi sono arrivati Kitch Christie, tecnico preparatissimo, Morne Du Plessis, il manager giusto al posto giusto, e sono emerse le doti di capitano di Pienaar. Francois è un buon ambasciatore del nostro Paese e del suo rugby. Questa squadra però è la più debole che il Sudafrica abbia avuto negli ultimi anni. Per imporsi, ha dovuto sopportare sacrifici enormi. Due allenamenti al giorno, per mesi. Quando la finale è andata ai supplementari, ero sicuro che avrebbero vinto. Grazie a loro tutti i sudafricani, anche i neri, ora tifano e si identificano negli Springboks. Grazie a loro si è salvato un simbolo che ha quasi cento anni. Ero in Parlamento quando l'arcivescovo Tutu mostrò la maglia a chi chiedeva di abolirla e disse: "Questo è lo stemma che ci ha unito". Mi ha regalato un'emozione. Anche Mandela si è schierato dalla sua parte. Che uomo il Presidente! Non voglio pensare a quando il Sudafrica dovrà fare a meno di lui".

All'epoca mia giocavamo per 10 rand. Ricordo che nel 1980 disputammo 9 test, con una media di 40.000 spettatori paganti, eppure io andavo sempre in rosso: per regalare biglietti agli amici, spendevo più del modestissimo rimborso-spese. Oggi la Federazione ha messo sotto contratto centinaia di giocatori. I nuovi Springboks sono professionisti veri. Non fumano, bevono poco. Ai tifosi italiani dico: domenica venite ad applaudire Joost Van der Westhuizen e Chester Williams. Con Lomu, sono loro i migliori del mondo".

ROB LOUW ha 40 anni ed è nato a Città del Capo. E' considerato uno dei migliori flanker sudafricani di sempre. Ha giocato per Stellenbosch University, Western Province (cinque Currie Cup consecutive tra il 1982 e il 1986) e Sudafrica (19 presenze). E' stato il faro de L'Aquila nel 1980-81 (scudetto) e 1982-83 (2ø posto). Dall'85 all'88 ha giocato a XIII col Wigan, in Inghilterra. Due mesi fa è tornato in Italia per allenare la Rugby Roma.