Chester Williams no. Lui in Nazionale c' arrivato nel 1993, un anno dopo la fine dell'apartheid. E c'è arrivato perché all'ala correva, e corre, più veloce di tanti colleghi bianchi. Da allora assieme a lui corrono i milioni di neri del "Paese dell'arcobaleno", i poveri e gli emarginati che sognano il riscatto. "Sono l'unico Springbok di colore, un modello per la gente nera del Sudafrica. E vorrei che, vedendomi, tutti i ragazzi neri capiscano che possono essere come me, che possono diventare un esempio per la loro comunità. Vorrei che dicessero: "Guarda cos'ha fatto Williams, forse posso riuscirci anch'io". Però, per favore, non chiamatemi eroe".
Le legioni dei suoi tifosi lhanno battezzato nei modi pi— coloriti: Chester Express, oppure WinChester. Oggi l'entusiasmo per lui e per gli Springboks non ha confini: "La vittoria mondiale ha cementato il Sudafrica. E' qualcosa che stava maturando, lentamente: il trionfo ha fatto da catalizzatore. Prima di venire in Italia, abbiamo portato la Coppa in giro per il Paese. Beh, spesso è dovuta intervenire la Polizia per salvarci dall'entusiasmo della gente, dei neri come dei bianchi. La Nazionale di rugby è la Nazionale di tutti e il rugby in Sudafrica è uno specchio della società".
Alla vigilia della Coppa del Mondo 1995 la sua faccia era sui muri di tutto il Sudafrica. "The waiting's over", l'attesa è finita, recitavano le locandine. Così il suo infortunio gettò nello sconforto l'intero Paese. Chi lo adorava e chi in lui aveva investito. Ma Chester ha le stimmate del predestinato. Alla terza partita, l'ala Hendricks prese a ceffoni un canadese e il nostro, guarito, tornò in squadra a furor di popolo. Quattro mete alle Samoa, un delirio collettivo, dai grattacieli di Johannesburg alle case di fango e lamiera dei sobborghi più poveri.
Il paradosso è che la vita di Chester si è dipanata al di sopra delle miserie del Sudafrica dell'apartheid. Lui non è nero, ma meticcio. Una differenza di non poco conto, neanche a Città del Capo, l'incubatrice della tolleranza. E' lui stesso a riconoscerlo:"Non ho mai sofferto per la segregazione razziale. Ho giocato con i bianchi sin da bambino" . Nato a Paarl, a nord del Capo, è cresciuto in una famiglia della classe media. Papà imprenditore edile, mamma casalinga, tre figli. "Mio padre, Wilfried, giocò con i Proteas (l'ex Nazionale meticcia; ndr) alla metà degli anni Settanta. Così mio zio, Avril, qualche stagione dopo. Io ho cominciato prestissimo, a 8 anni, poi...". Poi a scuola, una scuola per meticci, gli sconsigliarono di giocare con i suoi amici bianchi. Inaccettabile. Chester mollò tutto. Da quando il rugby l'ha rapito di nuovo, a 17 anni, la sua carriera è stata folgorante. Prima con Western Province, poi con gli Springboks (14 test, 11 mete!). Oggi Chester è un uomo ricco. Ha un manager, cinque sponsor personali (tra cui Adidas, Shell e SAA, le linee aeree sudafricane), continue offerte dai club a XIII europei. Sempre declinate. Il Sudafrica, il Capo sono tutto il suo mondo:"Spesso noi Springboks predichiamo rugby nei sobborghi. Ma a me i bambini neri chiedono solo di parlare, sono curiosi, vogliono sapere com'è la vita in Nazionale di uno di loro". Non è un caso che la Federazione del Capo l'abbia assunto allufficio propaganda e sviluppo. Ambasciatore di un popolo: è il destino di Chester, luomo qualunque.