CORRIERE DELLO SPORT

Mercoledì, 8 novembre 1995
Dall'inviato Francesco Volpe

GROTTAFERRATA - L'impossibilità di essere normale. Chester Williams coltiva i sogni di un uomo qualunque. Una casa, una famiglia, dei figli. Ma Chester Williams è tutto fuorché un uomo qualunque. E' il simbolo del nuovo Sudafrica multirazziale, il primo giocatore di colore a vestire la maglia degli Springboks per esclusivi meriti personali. Il suo predecessore, Erroll Tobias, era uno splendido mediano d'apertura vent'anni fa. Ma trovò spazio nella Nazionale bianca solo quando il Sudafrica, che avvertiva sul collo il fiato del boicottaggio internazionale, se ne servì per una discussa operazione d'immagine.

Chester Williams no. Lui in Nazionale c' arrivato nel 1993, un anno dopo la fine dell'apartheid. E c'è arrivato perché all'ala correva, e corre, più veloce di tanti colleghi bianchi. Da allora assieme a lui corrono i milioni di neri del "Paese dell'arcobaleno", i poveri e gli emarginati che sognano il riscatto. "Sono l'unico Springbok di colore, un modello per la gente nera del Sudafrica. E vorrei che, vedendomi, tutti i ragazzi neri capiscano che possono essere come me, che possono diventare un esempio per la loro comunità. Vorrei che dicessero: "Guarda cos'ha fatto Williams, forse posso riuscirci anch'io". Però, per favore, non chiamatemi eroe".

Le legioni dei suoi tifosi lhanno battezzato nei modi pi— coloriti: Chester Express, oppure WinChester. Oggi l'entusiasmo per lui e per gli Springboks non ha confini: "La vittoria mondiale ha cementato il Sudafrica. E' qualcosa che stava maturando, lentamente: il trionfo ha fatto da catalizzatore. Prima di venire in Italia, abbiamo portato la Coppa in giro per il Paese. Beh, spesso è dovuta intervenire la Polizia per salvarci dall'entusiasmo della gente, dei neri come dei bianchi. La Nazionale di rugby è la Nazionale di tutti e il rugby in Sudafrica è uno specchio della società".

Alla vigilia della Coppa del Mondo 1995 la sua faccia era sui muri di tutto il Sudafrica. "The waiting's over", l'attesa è finita, recitavano le locandine. Così il suo infortunio gettò nello sconforto l'intero Paese. Chi lo adorava e chi in lui aveva investito. Ma Chester ha le stimmate del predestinato. Alla terza partita, l'ala Hendricks prese a ceffoni un canadese e il nostro, guarito, tornò in squadra a furor di popolo. Quattro mete alle Samoa, un delirio collettivo, dai grattacieli di Johannesburg alle case di fango e lamiera dei sobborghi più poveri.

Il paradosso è che la vita di Chester si è dipanata al di sopra delle miserie del Sudafrica dell'apartheid. Lui non è nero, ma meticcio. Una differenza di non poco conto, neanche a Città del Capo, l'incubatrice della tolleranza. E' lui stesso a riconoscerlo:"Non ho mai sofferto per la segregazione razziale. Ho giocato con i bianchi sin da bambino" . Nato a Paarl, a nord del Capo, è cresciuto in una famiglia della classe media. Papà imprenditore edile, mamma casalinga, tre figli. "Mio padre, Wilfried, giocò con i Proteas (l'ex Nazionale meticcia; ndr) alla metà degli anni Settanta. Così mio zio, Avril, qualche stagione dopo. Io ho cominciato prestissimo, a 8 anni, poi...". Poi a scuola, una scuola per meticci, gli sconsigliarono di giocare con i suoi amici bianchi. Inaccettabile. Chester mollò tutto. Da quando il rugby l'ha rapito di nuovo, a 17 anni, la sua carriera è stata folgorante. Prima con Western Province, poi con gli Springboks (14 test, 11 mete!). Oggi Chester è un uomo ricco. Ha un manager, cinque sponsor personali (tra cui Adidas, Shell e SAA, le linee aeree sudafricane), continue offerte dai club a XIII europei. Sempre declinate. Il Sudafrica, il Capo sono tutto il suo mondo:"Spesso noi Springboks predichiamo rugby nei sobborghi. Ma a me i bambini neri chiedono solo di parlare, sono curiosi, vogliono sapere com'è la vita in Nazionale di uno di loro". Non è un caso che la Federazione del Capo l'abbia assunto allufficio propaganda e sviluppo. Ambasciatore di un popolo: è il destino di Chester, luomo qualunque.